venerdì, Aprile 26, 2024

Non amo i bivi, preferisco le traverse.

Tempo fa, mi trovai ad uno dei tanti bivi che la vita ti mette davanti.
Io non amo i bivi, perché quando li incontri, la prima cosa che fanno è bloccarti.
Arrivi, e anche se per pochi attimi devi fermarti per decidere se andare da una parte o dall’altra. Non li amo, perché preferisco la libertà.

Sarà per l’idea di libertà che vivo in ogni istante che non mi piace essere bloccato dai bivi della vita e sarà per la stessa idea di libertà che ho fatto tante scelte sbagliate. Soprattutto, sarà per questa idea di libertà che non riesco a pentirmi di quelle scelte sbagliate che ho fatto.

E ce n’è una che farebbe strabuzzare gli occhi a molti. Mia mamma, se ci fosse ancora, mi tirerebbe uno dei suoi famosi zoccoli e, con un’abilità degna di un super eroe, mi colpirebbe anche a lunga distanza.

La storia è questa.
Mio papà era impiegato in una grande azienda, di quelle che davano lavoro vero a tanti italiani. Erano i tempi in cui con un solo stipendio vivevi dignitosamente e che quando ne avevi due, potevi permetterti tante cose che oggi sono tornate a vivere nei cassetti dei sogni.

In quelle aziende, le persone lavoravano per una vita, era una seconda casa. Un po’ come i film di Fantozzi, forse. Ma quello è un racconto in parte ironico e in parte super trash di un genio. C’era un rapporto quasi umano fra azienda e personale, poi dipende come lo racconti.
Se lo racconti alla Fantozzi, ridi, ma poi piangi. Se lo racconti come l’ha vissuto mio padre, scopri degli elementi di umanità e socialità che oggi non vedi più, e di cui si dovrebbe sentire la mancanza.

Nelle aziende era intrinseca l’idea di famiglia e c’era una tradizione.
Quando un impiegato andava in pensione, veniva data la possibilità al figlio di entrare in azienda. Poco prima di andare in pensione, questa possibilità fu data anche a mio padre.
Al tempo, era forte l’identità genitoriale ed era forte il concetto di dover sistemare i figli. I maschi nel mondo del lavoro, le donne con un buon marito che le facesse vivere una vita felice. Per cui, quando arrivò anche in casa nostra la possibilità di sistemare un figlio, ci fu grande euforia. Grandi sogni e aspettative pronte a realizzarsi.

Anche nelle case c’erano delle tradizioni forti.
Una di quelle era il ruolo del primo figlio, che aveva la precedenza su molte cose.
Molti pensano, specialmente oggi in cui le dinamiche familiari sono cambiate, che dare la precedenza al primo figlio sia un’ingiustizia, perché i figli sono tutti uguali.
Io che ho vissuto molto intensamente quei periodi, e che oggi faccio il padre di tre ragazzi, tre come eravamo io e i miei fratelli, ho capito che non era un’ingiustizia, ma una gestione del tempo che passa. Il primo figlio aveva la priorità perché la società era gestita dal tempo: entro una certa età dovevi aver fatto il militare, entro una certa età dovevi aver un lavoro e una moglie, entro una certa età dovevi avere dei figli. Un modo di vivere la vita in maniera pratica.
Il primo figlio era quello che aveva le scadenze dello scorrere della vita più prossime, e per questo era il primo ad essere aiutato. Sistemato il primo si passava al secondo, poi al terzo, e così via.

Ora non mi ricordo il giorno e il momento esatto in cui mi fu posta la domanda, che poi tanto domanda a quei tempi non era. Nel mio immaginario l’ho collocata in un tardo pomeriggio nel giardino della nostra casa ad Ischia. Un pomeriggio di fine agosto, che poi era il periodo in cui mio padre riusciva a fare le sue di ferie.

Al tempo le domande erano molto dirette.
Con buona pace dell’idea dei tre cervelli, delle sequenze semantiche, del rispetto dei framing, dell’utilizzo delle metafore e via discorrendo. Al tempo c’era una rapporto sostanziato dalla precisa conoscenza dei ruoli all’interno della società, a partire dalla famiglia. In sostanza: il padre parlava, i figli ascoltavano. Il padre dava le regole, i figli le rispettavano. Oggi, puoi farlo lo stesso, ma ci arrivi in maniera più articolata.
Il dialogo, invece, me lo ricordo. Anche perché fu essenziale: “BenniBe, entro la fine dell’anno vado in pensione. Puoi entrare in azienda al posto mio, così ti sistemi.”
Pà, io voglio fare altre cose, in azienda poi non potrei farle. Meglio di no. Il mio posto dallo ad Antonio
Ora, due precisazioni: BenniBe era il mio diminutivo. Antonio era uno dei miei fratelli.

Quello che successe subito dopo è semplice da raccontare. Anche da immaginare.
Urla, strilli, accuse di incoscienza.
L’impostazione Aristotelica del dialogo veniva adattata al contesto in maniera assolutamente puntuale. C’era grande Pathos nella scelta del linguaggio e delle metafore: il richiamo all’esperienza dei grandi, quale massima guida fra le difficoltà della vita, tradotto con un linguaggio chiaro tipo “Che ne sapete voi giovani delle difficoltà della vita, della dura lotta che dovrete affrontare. Non sapete guardare oltre il vostro naso, siamo noi genitori che viviamo questa responsabilità e voi non avete cuore e intelligenza di seguire le nostre indicazioni.”
Anche se questo è quello che sentiva mio padre, quello che sentivamo noi era: “non capite un cazzo della vita, siete solo dei muccusielli (tradotto: giovani ragazzi con ancora il mocciolo al naso che la mamma doveva pulire) che non capiscono un cazzo”.

C’era, naturalmente la parte dedicata alla logica (Logos) dove veniva evidenziato che se non accettavi il posto che ti veniva offerto eri un cretino e che, se eri un cretino, non potevi fare nulla nella vita per cui ti conveniva accettare l’offerta del posto fisso. In effetti la logica c’era.

Infine, immancabile, un richiamo all’ethos, la credibilità e l’autorevolezza dell’oratore. Qui era semplice: “io sono il capo famiglia, ho una responsabilità e dovete seguire le mie indicazioni”, tradotto in lingua: “non rompete il cazzo, si fa come dico io”.
La cosa interessante, devo dire, con la consapevolezza del tempo, è che queste sceneggiate venivano sempre declinate al plurale. Insomma, non erano rivolte solo a me, ma c’era un utilizzo del plurale che portava la “cazziata” ad un livello universale, dove il singolo, io, non era importante. Importante era il concetto.

Era un bivio.
Da una parte la vita che avevo scelto, dall’altra una vita regolare, certa.
Un bivio di quelli che ti costringono a fermarti e pensare. Vado a destra o a sinistra.
Pensa, rifletti, valuta, immagina, rallegrati, rattristati, rischia, sii curioso.
Già, se non fosse che io il bivio non l’ho visto.
Perché la vita è come decidiamo di descrivercela, c’entra qualcosa (molto) con gli aspetti della narrazione del se, non come la vedono gli altri.

Non avevo davanti a me un bivio, avevo una strada su cui passeggiavo e, da un lato, una traversa, una semplice traversa di quelle che se sei sulla strada principale puoi anche non vedere. Le cose che ci accadono sono espressione di quello che siamo e non sono belle o brutte (quelle, semmai sono le conseguenze), sono personali.
E la strada che scegli è la motivazione, è ciò che ti rende grato all’universo di esistere.
Poi, capita che scegli di prendere una traversa. E quella diventa la tua strada.
I bivi non mi piacciono, amo camminare lungo il percorso che mi rende allegro e felice. Poi, se volte continuate a chiamarli bivi. Io continuo a chiamarle traverse e godermi la strada principale.

Alla fine, Antonio entrò in azienda, ma oggi non ci lavora più. Io ho continuato il mio lavoro, oggi ancora lo amo e ancora passeggio sulla mia strada.

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Beniamino Buonocore
Il bello di un sogno nel cassetto è aprire il cassetto e realizzarlo. La comunicazione e il marketing, in momenti diversi, aiutano a rendere la propria idea di impresa qualcosa di reale e per cui, poi, vale la pena dedicare le proprie energie. Il mio lavoro è aiutare le imprese e i professionisti a raccontare la loro idea, il loro modo di lavorare, il loro modo di essere e, in questo modo, renderle uniche. Mi occupo di comunicazione da tanti anni.

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